Opec al tramonto. La seconda rivoluzione energetica metterà fine alla maledizione del petrolio?

di  Umberto Mazzantini

La seconda rivoluzione energetica metterà fine alla maledizione del petrolio e all’ Opec? Su Foreign Policy, Amy Myers Jaffe, direttore esecutivo per l’energia e la sostenibilità dell’università della California, ed Ed Morse, global head per la ricerca sulle commodities di Citigroup, tracciano un bilancio dei 40 anni passati dall’embargo petrolifero arabo iniziato 16 ottobre 1973. Un fatto, spiegano, che innescò «un periodo di cambiamenti incredibili e turbolenze».

Per punire gli Usa per l’aiuto dato ad Israele nella guerra del Kippur, un cartello di Paesi in via di sviluppo, attraverso l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec) vietò le vendita del loro petrolio agli alleati di Israele (Italia compresa, i meno giovani si ricordano certo le domeniche di austerity senza traffico), mettendo in moto un meccanismo che alla fine strappò il controllo della produzione e dei prezzi del greggio alle multinazionali (vi ricordate le 7 sorelle?), inaugurando l’era del rialzo dei prezzi dei carburanti: oggi, in termini reali, i prezzi del petrolio sono più di 4 volte superiori a quelli del 1972.

Jaffe  e Morse sottolineano che «L’evento al momento fu salutato come la prima grande vittoria del “Terzo Mondo” che aveva il potere di mettere l’Occidente in ginocchio. Progettato in parte per dare alle popolazioni arabe quanto dovuto loro dopo decenni di colonialismo, l’embargo aprì le porte ad un trasferimento senza precedenti di ricchezza dall’America e dell’Europa verso il Medio Oriente. In una notte, il più grande segmento dell’economia globale, il mercato del petrolio, divenne politicizzato come mai prima nella storia».

Quaranta anni dopo, gli Usa hanno l’occasione storica di fare una controrivoluzione contro il sistema Opec, grazie al fatto che l’innovazione nell’industria energetica sembra in grado di mettere fine alla dipendenza dal greggio straniero: «Washington dovrebbe cogliere l’opportunità e spingere per democratizzare l’energia a livello globale, come i giganti della sua Silicon Valley hanno democratizzato informazioni», si legge su Foreign Policy.

Prima del 1973 i due terzi della proprietà globale del greggio era passato dalle multinazionali Usa ed europee alle imprese pubbliche nazionali ed i produttori di greggio più a basso costo, come Arabia Saudita, Iraq d Iran, invece di affidarsi al mercato  hanno gestito di fatto i prezzi, così le grandi imprese statali, spesso con limitate capacità di gestione e progettuali e con molti lavoratori, hanno scavalcato giganti come la Chevron e la Shell sia per capitalizzazione, sia per dimensioni.

Purtroppo, ad esclusione di alcuni recenti casi in paesi “socialisti”, questa redistribuzione della ricchezza energetica non si è trasformata nella redistribuzione della ricchezza nel Medio Oriente, ma in uno sfarzoso spreco dei regimi dittatoriali e delle monarchie assolute che hanno gettato al vento l’opportunità di utilizzare la ricchezza petrolifera per modernizzare le loro società e preparare le loro popolazioni ala futura concorrenza economica globale.

«Il risultato, dispiegatosi  non solo in Medio Oriente, ma anche in altri Paesi produttori di petrolio, è una crisi di governo che sta essa stessa innescando una serie di interruzioni delle forniture di petrolio – spiegano Jaffe  e Morse – Il massiccio afflusso di petrodollari portò con sé un nuovo paradigma politico clientelare di “rentier patronage”, caratterizzata da eccessi finanziari, corruzione, repressione, e miliardi di dollari in acquisti di armi accumulate. Le popolazioni degli Stati produttori di petrolio, per la maggior parte, stanno poco meglio oggi rispetto al 1973. Molti dei Paesi sono stati devastati dalla guerra o lacerati da odi settari. E, anche con decenni di prezzi relativamente elevati del petrolio e le relative rimesse dei lavoratori, la maggior parte dei Paesi del Medio Oriente vedono ancora Pil pro capite modesti, al di sotto di 30.000 dollari a persona su una base di parità di potere d’acquisto».

Questo vuol dire che da una parte c’è lo sfarzo e lo spreco e dall’altra gran parte della popolazione mediorientale che vive in povertà, anche in Paesi come l’Arabia Saudita. E’ da questo che nascono le primavere e le rivoluzioni arabe che sono rivolte di popolo contro chi ha sperperato il futuro e non ha mantenuto la promessa di prosperità, del petrolio. E’ per questo che i giovani scendono in strada, i lavoratori del petrolio scioperano ed i jihadisti prendono le armi per mettere fine alla maledizione del petrolio.

E dietro a questo c’è una crisi incipiente di quel modello nato 40 anni fa: alla fine i prezzi elevati del petrolio, le guerre petrolifere americane (che si rivelano sempre meno lungimiranti) e le rivolte arabe hanno spinto ad investire in altre tecnologie e fonti energetiche. «Anche l’efficienza energetica sta dando una spinta – dicono i due studiosi statunitensi –  ad una contrazione del mercato a lungo termine per il petrolio del Medio Oriente. Il risultato è che nel tempo sarà sempre più difficile per i governanti arabi contare sui soldi del petrolio per mantenersi al potere. Il che ha un effetto “trickle-down” per le popolazioni che sono state tenute calme per decenni con l’assistenzialismo. Ironia della sorte, proprio quando le rivoluzioni politiche stavo prendendo slancio in tutto il Medio Oriente, stava emergendo un diverso tipo di rivoluzione che sembra destinato a portare una nuova epoca di dislocazione e distorsione delle strutture di gas e petrolio prevalenti. Questa seconda rivoluzione energetica ha anche effetti migliori della prima».

Dall’avvio delle primavere arabe nel 2011 in Tunisia ed Egitto, la quantità di petrolio “offline” o la produzione bloccata da disordini interni (Iraq, Nigeria, Sudan, Siria, Yemen) o da  sanzioni internazionali ( Iran) è stata generalmente superiore a 2 milioni di barili al giorno (mb/g), 4 volte più delle interruzioni dei rifornimenti prima delle rivolte arabe. Poi è saltata la Libia, mettendo “offline” oltre 1,2 mb/g. «Ma l’impatto di queste interruzioni è stato relativamente mite – fanno notare Jaffe  e Morse – dato che nello stesso periodo, la produzione in Nord America, il cuore dei tre cambiamenti rivoluzionari nella produzione di idrocarburi non convenzionali (shale, acque profonde e sabbie bituminose), è cresciuta di oltre il 2,5 mb/d. Ed ancora di più è in arrivo. Negli ultimi anni anche la crescita delle energie rinnovabili è stata significativa, negli Usa ed altrove, e l’aumento dei costi dei combustibili fossili ed il forte ‘intervento pubblico hanno creato nuove opportunità di mercato. La produzione mondiale di biocarburanti è raddoppiata a più di 1,2 mb/g nel 2006, ma l’energia eolica dal 2008 è cresciuta, in termini di petrolio equivalente, da 1 mb/g di 2 mb/g (e sta accelerando a circa un 20% su base annua). L’energia solare, nel frattempo, è passata da 20.000 b/g  di energia equivalente di petrolio del 2008 a 400.000 b/g l’anno scorso».

Un cambiamento nel sistema energetico mondiale che  andrà ben oltre la semplice sostituzione delle continue interruzioni dei rifornimenti dovute alle turbolenze mediorientali, il boom del contestatissimo greggio e gas  non convenzionale (fracking e scisti) ed il clean-tech stanno facendo nascere imprese petrolifere e gasiere più piccole impegnate nell’innovazione, ma anche disposte ad assumersi enormi rischi ambientali. Sono queste compagnie, non le multinazionali, che stanno permettendo agli Usa assumere un ruolo guida nel cambiamento del mercato energetico a livello globale.

«L’innovazione energetica sta prendendo forme diverse negli Usa – si legge su Foreign Policy – creando maggiori opportunità di esportazione e dando a Washington gli strumenti necessari per garantirsi che le condizioni di un embargo petrolifero sullo stile di quello del 1973 non si ripeteranno».

L’embargo petrolifero fu così devastante perché la forte crescita economica per tutti gli anni ’60 aveva raggiunto il limite della capacità produttiva delle riserve di petrolio negli Usa e in tutto il mondo, lasciando ai produttori di petrolio del Medio Oriente un indebito potere di monopolio. Una cosa simile accadde nel  2006 e nel 2007, quando l’Opec fece dei tagli alla produzione per mantenere i prezzi del greggio alti, senza tenere in considerazione i rischi per la crescita economica globale. Ma da quando la produzione di gas dagli scisti statunitensi e canadesi ha invaso il mercato, la capacità dell’Opec e della Russia di utilizzare l’arma energetica per ottenere ulteriori benefici dai Paesi consumatori di petrolio sta diminuendo.

Innovazione dei combustibili alternativi, del gas naturale e dei veicoli elettrici ed ibridi, l’efficienza energetica, le nuove batterie per lo stoccaggio e  le smart-grid, insieme all’aumento dell’offerta di petrolio e di gas non convenzionali, sta cambiando anche il volto della domanda, offrendo ai consumatori di tutto il mondo più libertà di scelta. .

L’influenza di Russia ed Iran sugli acquirenti di gas naturale liquefatto (Gnl) è in calo perché la produzione di shale gas Usa ha avuto l’effetto a catena di aumentare le forniture di Gnl alternative per l’Europa, abbattendo i prezzi fissati dai monopoli. «Ma questo è solo l’inizio – scrivono Jaffe  e Morse  – Nel corso del prossimo decennio, gli Usa sembrano destinati a sorpassare la Russia ed il rivale Qatar come uno dei principali fornitori di gas naturale dei mercati internazionali. Il ruolo geopolitico dell’eccedenza Usa di gas naturale, limitando la capacità della Russia di usare la sua energia come un cuneo tra gli Stati Uniti ed i loro alleati europei e asiatici,  dovrebbe rafforzarsi nel tempo, al punto che l’amministrazione di Barack Obama ha in corso l’approvazione della costruzione di terminal per esportare Gnl», contestatissimi da associazioni come Greenpeace e Sierra Club.

Anche il petrolio non convenzionale del Texas ed il gas del fracking in Pennsylvania stanno producendo nuove eccedenze che vengono sempre più esportate verso l’Ue e l’Asia, riducendo la crescita della domanda di petrolio dal Medio Oriente. Alla fine il petrolio ed il gas made in Usa potrebbe rappresentare, per un certo periodo, quello che è stato il petrolio del Mare del Nord negli ani ’80 per calmierare i prezzi.

Una rivoluzione energetica che ha già pesanti contraccolpi in Arabia Saudita, Kuwait ed Iran, ma anche sulle politiche energetiche protezionistiche di Paesi come Messico ed Argentina.

Gli Usa sono oggi destinati a diventare allo stesso tempo il più grande importatore ed esportatore mondiale di idrocarburi e questo sta producendo forti impatti ambientali, mitigati solo dalla fortissima crescita delle energie rinnovabili e del risparmio energetico e delle reti intelligenti che pongono le basi per una maggiore scelta e controllo dei consumatori. E’ l’energia autoprodotta e distribuita che potrebbe mettere in crisi questo rivolgimento geopolitico energetico e che nei Paesi in via di sviluppo potrebbe addirittura far saltare la fase dell’energia del petrolio.

Jaffe  e Morse   concludono: «Proprio come era difficile prevedere l’impatto dei computer Apple sui futuri trend sociali globali, ora può sembrare difficile raffigurare l’ora ed il luogo esatti in cui le risorse non convenzionali americane e l’innovazione smart-grid, democratizzeranno i mercati energetici. Ma Apple ha fatto resettare il nostro modo di pensare e l’informatica ha cambiato il mondo. Allo stesso modo, gli spostamenti che si svolgono attualmente nel settore energetico, che siano rivolti ai mercati o che si torni  a mettere al primo posto il controllo del governo, la scelta dei consumatori sarà vincente sui monopoli dei rifornimenti. In un primo momento il ritmo del cambiamento potrà arrivare lentamente, ma alla fine sarà non meno sorprendente di quello del 16 ottobre 1973, una giornata che ha inviato onde d’urto all’economia globale, le cui increspature sono ancora oggi visibili».

da greenreport.it